Alba dalla Tofana di Mezzo

"Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminarti, il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace". D.Buzzati

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martedì 26 novembre 2013

Racconto: "Sporco d'azzurro" di Irene Pampanin



tratto dal libro 
 

SPORCO D’AZZURRO




Il grande maestro era davanti a me.
Mi fermai, immobile. Era magro, più di quanto immaginassi. Portava una camicia rovinata e un gilè altrettanto squallido. La parete di legno sullo sfondo si confondeva quasi con la sua figura.
Si muoveva lentamente, un po’ impacciato, come se le sue spalle portassero più anni di quanti in realtà ne aveva.
Credevo fosse diverso, più alto, più robusto, con l’aria di chi conosce tanto ma non è mai stanco di scoprire. Invece mi ritrovavo davanti un omino esile, insicuro, pareva arrivato dal passato per regalarmi un attimo della sua presenza.

Per un momento esitai. Era davvero lui?

Altra gente cominciò ad arrivare. Mi avvicinai al maestro alla ricerca di un segno o una prova che mi confermasse la sua identità.
Fu in quel momento che dalla sacca ai suoi piedi estrasse una delle sue creature. Tutto intorno a lui parve illuminarsi.
La sua mano segnata dalle vene dell’età, aveva dita lunghe e forti, ma fu con estrema delicatezza che le dita macchiate d’azzurro estrassero il capolavoro dal sacco.
Cominciò a spuntare una cornice dorata, poi bianco, poi azzurro, verde, blu e ancora bianco, poi un fiore, acqua, onde, sogni, arte, colori, un canto …
Posò il dipinto a terra come fosse nulla. Io rimasi a fissare la tela.
Mi avvicinai all’angolo in basso a destra, sapevo quello che cercavo. Ed eccola lì, nitida e comprensibile, la sua firma: Monet.

Allora era davvero lui.
O era un altro Monet? Come poteva essere lui? Non era morto quasi un secolo fa?

Continuai a fissarlo mentre tirava fuori altri dipinti dal sacco e li poggiava su di un tavolino vicino. Poi prese una sedia, un vasetto di vetro, dei pennelli e una tela.
Abbassai lo sguardo un attimo e appena i miei occhi si posarono di nuovo su di lui, tutto si era sporcato d’azzurro.
L’azzurro cominciava a dipingere ogni cosa. Monet non parlava, la gente intorno cominciava a diventare bianca, come tanti fantasmi.
Frugai nella mia borsa. Strano, non mi ero accorta di avere una borsa.
Tirai fuori un piccolo foglio rettangolare, volevo la sua firma, una sua pennellata, una cosa qualsiasi da tenere con me prima che tutto finisse.
Mi avvicinai a lui, titubante, senza dire una parola. Allungai la mia mano porgendo il foglio al pittore. Si voltò, per la prima volta mi guardò negli occhi. Aveva la barba, una folta barba riccia.
Io non osavo parlare, ero a pochi centimetri dal pittore che per anni avevo venerato quale maestro dell’impressionismo e autore delle bellissime ninfee.
Mi sorrise, aveva lo sguardo buono, forse aveva compreso il mio pensiero. Prese delicatamente il foglio, il pennello e cominciò a dipingere.
Era incredibile come ciò che usciva dal suo tratto fosse estremamente morbido, delicato, melodico. Sembrava un sogno gettato sulla carta da quelle mani sporche d’azzurro.
Poco dopo su quel foglio bianco era nata una bellissima ninfea. Non potevo crederci, una ninfea tutta per me!
E sotto la firma, stavolta completa, originale. Era lui: Claude Monet.
Per la prima volta il mio viso immobile si mosse in un sorriso. Il cuore cominciò a battere all’impazzata. Il vecchio pittore mi guardò e rise ancora una volta. Aveva gli occhi azzurri, chi l’avrebbe mai detto!
D’un tratto dal tetto la colata d’azzurro cominciò ad avanzare più velocemente verso di me.
Tutto stava diventando cielo. Il tavolo era sparito,  il pavimento annegato nel colore …
Monet era bianco, sempre più bianco ….Ancora più bianco, una nuvola!
Piano piano sparì portato via dal suo cielo e io cominciai a cadere tenendo forte tra le mie mani quella piccola ninfea.

Poi il buio. Aprii gli occhi. La coperta del letto arrivava fino sopra al mio naso. D’istinto cercai sotto le lenzuola quel foglio dipinto. Ma non c’era più …

Irene P.


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Sporco d'azzurro è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

martedì 19 novembre 2013

Poesia: questa volta, mia!



BUONANOTTE



Togliendo la luce alle tue pupille
scavalco le spighe aggrappate ai tuoi occhi.
Nascondendomi dentro una tua ruga
seguo il segno piegato delle tue labbra.
Scivolando nell’abisso delle tue alghe
inseguo il fil d’oro d’un tuo capello.
Lasciando cadere ogni mio lembo
slego la rete delle mie angosce.

E senza svegliarti mi addormento
nel mare profondo delle tue braccia.



Irene P.

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Buonanotte diIrene Pampanin è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.

Vecchia storia - Una poesia di Dino Buzzati

Da IL CAPITANO PIC E ALTRE POESIE - Dino Buzzati, 1965 (Neri Pozza Editore)

     Adoro Dino Buzzati: quello dei racconti, prima di tutto.
Ieri l'ho scoperto in un'altra veste, consultando in biblioteca a Belluno il libro “Il Capitano Pic e altre poesie”(piccolo volumetto del 1965, oggi quasi introvabile).
Buzzati poeta: è incredibile. Anche lì è riuscito a buttarci dentro la cronaca, la quotidianità trasformata dalla fantasia, la vita militare, l’attesa, la morte, l’amore non ricambiato, le riflessioni sull’esistenza e pure i disegni … Le sue poesie sono dei racconti che stuzzicano l’immaginazione continuamente. 
     D’altronde, già i racconti di per sé, sono delle poesie … (La descrizione del palloncino che scoppia nelle mani della bimba in lacrime ne “Il palloncino”, non è forse una straziante poesia? Così come la morte del Babau …)

Dato che il libro è difficilmente reperibile, vi lascio una poesia che mi ha colpita particolarmente. Buona lettura!

venerdì 15 novembre 2013

Racconto: "ll rumore della montagna" di Irene Pampanin


Vista l'aria di neve,

questa sera vi propongo questo racconto,

tratto dal libro "Rifugio Settimo Cielo"



IL RUMORE DELLA MONTAGNA

 


   È mattina. Lo so, perché la sveglia si è messa a suonare. Sotto il piumone il calore mi avvolge, non mi voglio alzare! Solo il mio naso fa capolino dalle coperte. È freddo come la stanza che mi circonda, ma è dolce il profumo di caffè che comincia a respirare. Allora mi alzo, accendo la luce, anzi no, la lascio spenta, vado alla finestra inciampando nelle ciabatte e la apro piano… lo sapevo, sta nevicando. Udivo il rumore dei fiocchi mentre dormivo o forse semplicemente sentivo l’odore della neve.
   Un batuffolo bianco si posa sui miei occhi ancora assonnati, lo prendo delicatamente con il dito per vedere la sua forma, ma già si è sciolto sulla mia mano.
   Guardo mio fratello dormire, poi apro in silenzio la porta ed esco dalla mia stanza. Il corridoio la mattina mi sembra più bello, è blu e un po’ giallo, sembra essersi risvegliato anche lui con un raggio del sole.
   Il cane mi guarda dalla sua cuccia, ancora non ha le forze per darmi il buongiorno ma mi guarda, dolce, come a volermi salutare. Mi segue con lo sguardo finché entro in cucina.
Non c’è nessuno, ma la moca è sul fuoco. Che bello, qualcuno ha pensato a me.
Il vetro è appannato, dalla stufa accesa si sente un leggero filo di calore. Mi avvicino, metto le mani su quel filo e comincio a tessere con la fantasia un pianoforte. Muovo le dita, pian piano prendono calore. Sento la musica. È il suono del caffè che mi chiama, del cane che si alza e sbadiglia teneramente, del papà che appoggia la legna da ardere nella cassapanca, dello spazzaneve che passa sulla strada.
Intorno a me comincia la vita. E io penso che cosa devo fare durante questa giornata. Prendo la tazzina verde con gli occhi, il naso e la bocca dipinti, la riempio e ci metto sbadatamente lo zucchero, che, come sempre, va a finire sul tavolo.
Penso a cosa devo fare nelle prossime ore: andare a scuola, preparare la cartella, l’interrogazione, finire quel disegno… no, basta!
Adesso è il mio momento. Mi appoggio sul davanzale. Guardo fuori. Il calore del caffè appanna ancor di più il vetro. Nevica più forte. Sotto i lampioni vedo i fiocchi scendere. Sono arancioni, ballano e suonano… devono essere gli angeli che suonano il rumore delle montagne. Non mi stupirebbe se ora da sotto quella neve uscisse il Cielo in persona a cantare qualcosa di simile allo scontro tra due soffici nuvole bianche.

   Son già le sei e mezza, mi devo sbrigare. Mi vesto velocemente, risciacquo il viso con l’acqua fredda, saluto la mamma che nel frattempo si è svegliata, accarezzo la testolina morbida del mio cane ed esco di corsa.
Il maglione mi accarezza il mento. Metto la giacca, i guanti e il berretto. Lo zaino è pesante, ma non fa niente, la strada non è molta.
Apro la porta. Sono fuori.
Incredibile. L’alba è riuscita a essere più veloce di me. La mia guancia sinistra sente già il calore del sole, i miei occhi vedono una striscia di rosa nel cielo e l’ultima stella scomparire.
   Comincio a scendere le scale frettolosamente, ma mi fermo di colpo. Qualcuno mi chiama. Non dice il mio nome, ma sta chiamando me. Io lo sento…
È forte, è bella, è sempre stata lì. Mi giro e mi fermo in quell’attimo di infinità. Così semplice, così pura, la montagna mi saluta con il rumore del vento quando si scontra con la mia pelle. Io respiro l’eterno e come d’incanto sto bene. Io ora ho un po’ del suo eterno nell’anima e lei un po’ del mio cuore tra la sua roccia.
   Rivedo quello che ha visto lei: rivedo mio nonno che piangeva quando partivamo per il mare, che accarezzava il gatto arancione seduto sulla panca, che mi dava da mangiare di nascosto, che non mi riconosceva più quando era la fine. Rivedo la nonna che saliva le scale a fatica pur di giocare con me, che mi ha regalato il colore dei suoi occhi, la nonna che mi dicevano fosse diventata una stella.
Rivedo i riccioli biondi di mio fratello, la bicicletta azzurra con le rotelle, la mamma che ci tirava le ciabatte quando non stavamo buoni! La torta di compleanno con le candeline rosa, il papà con la divisa da vigile e che, anche se avevo sei anni, l’otto di marzo mi portava la mimosa.
Mio nonno che sedeva sempre capotavola e la nonna che cercava di farmi pronunciare bene la parola “capriolo”.
   In un momento rivedo nella montagna i ricordi che solo lei che tutto vede e tutto ricorda poteva farmi tornare alla mente.
Tolgo il berretto, sorrido. Un po’ la mia anima è commossa, ma ride. Nelle vene mi scorre l’infinito, ora io sono di più.
Non sento più il peso dello zaino, i fiocchi tra i capelli diventano dolci carezze. Scendo le scale, prendo in braccio il gattino bianco e nero che sonnecchia sulla panca, gli do un bacino sul suo tenero musetto e saltellando mi avvio per la strada bianca scivolando qua e là. Vado... vado a scuola, vado avanti, vado più sicura. Lei rimane alle mie spalle, sempre viva, a respirare, a fare del suo respiro la linfa della mia vita.

Irene Pampanin


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Il rumore della montagna diIrene Pampanin è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.

La prima vera nevicata in Val Fiorentina



Pescul, 15 novembre 2013

La neve cade,
tutto si fa silenzioso.
Solo una cosa fa ancora rumore:
il cuore che batte e si emoziona alla finestra ...

Irene P.

martedì 12 novembre 2013

Quando la luna si appoggia sul Pelmo ...

Da Pescul, pochi minuti fa.
Da Pescul, pochi minuti fa.

"La luna vista da qui pare piccola e irraggiungibile, 
ma non è lei ad essere piccola
bensì tutto il resto.
Irraggiungibile è solo quello
che non è già dentro di noi..."

Irene P.

venerdì 8 novembre 2013

Schizzo a matita

By Irene Pampanin
Il risultato di un momento di sconforto:
riprendere in mano la matita dopo tanti anni e scarabocchiare un viso. 
Niente di meglio per smettere di pensare!